Quando si parla di brigantaggio la nostra mente corre subito a quel periodo della storia italiana postunitaria, dal 1861 al 1870, allorquando il fenomeno del brigantaggio di carattere politico si manifestò in tutta la sua virulenza, causando una vera e propria guerra civile, tanto che lo Stato neounitario fu costretto ad impiegare più della metà del suo esercito e una legge di guerra (la legge Sica)per poter porre fine al dramma: i briganti massacrati furono alcune migliaia.
Ma io vorrei parlarvi di un altro tipo di brigantaggio, quello che Benedetto Croce e lo storico britannico Eric Hobsbawm definirono “brigantaggio di stampo sociale”, del quale appunto Angelo Duca fu uno dei massimi esempi. Costui era nato a San Gregorio Magno (dove sono nato anch’io!) il 1° aprile 1734; i genitori si chiamavano Pietro Duca e Vittoria Urso, come risultava da un certificato di nascita in possesso di B. Croce. La maggior parte delle notizie sulla vita del giovane derivano da un poema in tre canti scritto da un antenato di Giustino Fortunato, Don Pasquale Fortunato. Questi “era di Rionero in Vulture, dove nacque nel 1731 e vi morì nel 1813; dimorava nei luoghi dove Angiolillo operò… Questo poema è un prezioso documento: e perché proviene da persona che era in grado di essere bene informata, e di molte cose fu testimone oculare, e per la tendenza critica che vi domina contro Angelo Duca” (Croce). Don Pasquale Fortunato, dunque, racconta che Angelo era nato da poveri genitori e viveva facendo il pastore. Era di aspetto non bello, basso di statura e di colorito olivastro; fin da giovane si mostrò prepotente, ma, nello stesso tempo, sapeva guadagnarsi gli animi di tutti. “Visse poi col frutto d’una sua piccola terra, ed era in ottima fama per tutta quella contrada, come di uomo di molta risolutezza, ma anche di fido amico e buon vicino” (Croce) . Era ormai giunto quasi alla cinquantina quando, nel 1782 o 1783, accadde un fatto che gli cambiò la vita poiché Angelo si scontrò con il duca di Martina ,D. Francesco Caracciolo.: Angelo aveva affidato il suo gregge ad un nipote, Gian Giacomo, detto Gianiaco, “che lo menò abusivamente a pascolare sulle terre del Duca di Martina. Il guardiano (gente feroce, al solito) colse sul fatto il ragazzo, e lo battè aspramente. Angelo, che era poco lontano, accorse in difesa del nipote, e sparò il suo fucile contro il guardiano, che stava a cavallo; e il colpo ammazzò il cavallo” (Croce). Il Duca di Martina, informato dell’accaduto, andò su tutte le furie; allora Angiolillo non ebbe scampo, poiché consegnarsi alla giustizia in quei tempi equivaleva ad aver la vita rovinata per il resto dei propri giorni. Il povero contadino allora decise di “darsi alla macchia” e di aggregarsi quindi alla banda di Tommaso Freda di Andretta, che di Angiolillo era una vecchia conoscenza. “Dopo otto mesi ch’era stato a scuola nella compagnia del Freda, Angiolillo aveva fatto tali progressi che pensò di formare una compagnia da sé. Il Freda, poco stante, finì male, perché due compagni lo tradirono a Santa Menna, lo uccisero, e gli tagliarono il capo, che portarono all’Udienza di Salerno “ (Croce”.
Divenuto brigante, Angiolillo esercitò la sua “attività” nelle province di Salerno, di Avellino e nella Basilicata settentrionale; però a differenza di autentici criminali come Carmine Croco, Ninco Nanco, Giuseppe Caruso, Angelo Bianco, ecc. egli si comportò sempre con grande umanità, generalmente togliendo ai ricchi e distribuendo viveri e denaro ai poveri; Assai spesso fornì la dote a giovani spose indigenti. Ai suoi uomini poi impose sempre il rispetto per le donne indifese. Un Robin Hood vero questa volta, che con i suoi comportamenti era sempre salutato con entusiasmo e plauso dalle popolazioni; in breve si guadagnò il titolo d “re delle campagne”; dopo poco più di un anno, la sua fama e le sue imprese raggiunsero la corte borbonica a Napoli. Ferdinando IV, per correre ai ripari, diede incarico ad un giudice della Gran Corte della Vicaria, il conte Vincenzo Paternò, di occuparsi di questo personaggio che stava acquistando fama eccessiva e neutralizzarlo.
Il giudice Paternò, dopo aver acquisito tutte le informazioni del caso, spedì alcuni reparti dell’esercito contro il brigante, che riuscì a venir fuori indenne da una serie di agguati. Alla fine, “i briganti nella loro fuga si fermavano di tanto in tanto per far riposare Peppe Russo (che era ferito). Ora un giorno, stando nascosti, questi si mise a giocare alla primiera con Ciccio Zuccarino. E, venendo a diverbio tra loro per un’inezia, Peppe dette al compagno uno schiaffo. Zuccarino se ne querelò col capitano; ma Angiolillol lo sgridò per giunta, cosicchè il brigante, irritato, conservò il torto nel cuore, aspettando l’occasione di vendicarsi” (Croce). Infatti il giovane Zuccarino ebbe modo di tornare al suo paese, Caposele, e qui informò le autorità sui movimenti di Angiolillo, che si era rifugiato nel convento di Muro, dove il nostro fu sorpreso dai reparti dell’esercito, sulle indicazioni del giovane traditore. Dopo un po' i due briganti, il Russo e Angiolillo, furono catturati e condotti a Salerno, con una nutrita scorta di cento soldati; furono rinchiusi nel carcere “e si sarebbe dovuto cominciare ad istruire il processo, e valenti avvocati si accingevano in lor difesa” (Croce) A porre fine agli indugi giunse un biglietto del re che, senza altra forma di processo, ordinava l’immediata impiccagione di Angiolillo e di Peppe Russo. Quest’ultimo nel frattempo era già morto e nel giorno stabilito Angiolillo e il cadavere del suo compagno furono appesi alle forche in piazza Portanova a Salerno. Al Croce non è stato possibile appurare il giorno preciso dell’impiccagione, poiché sono spariti nel nulla tutti i documenti al riguardo, così come anche i registri della Congrega de Nobili che accompagnava i condannati. Io, personalmente, ho spulciato all’Archivio di Stato tutti i registri relativi all’anno 1784 ma non ho trovato nulla sull’esecuzione di Angiolillo. Solo una trentina di anni fa sono saltate fuori alcune notizie sicure sugli avvenimenti che ci riguardano: si legge infatti nella ”Cronaca” del canonico Matteo Greco, manoscritto settecentesco inedito, pubblicato da Emidio Pettine (Salerno, Palladio 1985, pag. 202-203): la cattura era avvenuta il 10 aprile 1784, l’arrivo a Salerno da Porta Rotese il 19, e -dice il cronista-“ …entrò col suo compagno Peppe Russo, mezzo arso dal fuoco…” Lunedi 26 aprile 1784, nel primo pomeriggio, venivano impiccati Peppe Russo, già morto in carcere il giorno prima, e Angiolillo, anche lui mezzo morto. “La sera medesima furono entrambi fatti in quarti, e mandati ne’ luoghi da medesimi frequentati”, dice con tono crudo e asciutto il cronista Greco. Aggiungiamo, per completare il quadretto, un ultimo drammatico particolare: la testa di Angiolillo fu a lungo esposta sulla “Porta di Nanno” a Calitri. Qualche altro particolare lo apprendiamo dalla Relazione del Regno di Napoli mandata dal Di Breme, ambasciatore del Re di Sardegna in Napoli, al suo governo, nel1786; il documento è conservato nell’Archivio di Stato a Torino. Tra l’altro vi si afferma che “ci si aspettava di vedere istruire il suo processo (ad Angiolillo) e questa speranza lo tranquillizzò in prigione, perché era notorio che non aveva commesso alcun crimine che meritasse la morte agli occhi della gente. Il re riceveva ogni giorno delle richieste da ogni parte affinchè gli accordasse la sua difesa; un avvocato accreditato osò domandargli il permesso di assisterlo a sue spese”.
Evidentemente il re la pensava in maniera totalmente opposta poiché “bisognava necessariamente, in un paese, dove le teste si montano facilmente, disfarsi di Angiolillo e avvertire con la sua cattura i suoi simili a non rendersi così popolari” (Di Breme). Sempre in quella relazione l’ambasciatore sabaudo scriveva: ”L’indifferenza dei napoletani, la dedizione dei magistrati alla propria fortuna, la fanno propendere considerevolmente oggi verso un dispotico perfetto e ben presto essa vi giungerà del tutto… A Napoli si vide il primo esempio di un uomo messo a morte su ordine firmato dal re, senza processo né sentenza”.