Tutti sappiamo, per averlo studiato a scuola, che tra gli antichi filosofi Diogene di Sinope, detto anche il Cane, fu un personaggio strano ed originale più di ogni altro.
Leggendo l’opera “Vite e dottrine dei più celebri filosofi” di Diogene Laerzio, ho trovato delle pagine divertenti e curiose che raccontano vicende e pensieri particolari di questo antico pensatore. Mentre ritornava da Olimpia, a uno che gli domandò se ci fosse molta folla, rispose: “Molta era la folla; pochi, però, gli uomini”. Disse che gli scialacquatori sono molto simili agli alberi di fichi cresciuti su uno strapiombo: nessun essere umano gusta i loro frutti, ma ne mangiano soltanto corvi e avvoltoi. Siccome Frine aveva posto a Delfi, come offerta votiva, una statua d’oro di Afrodite, dicono che egli avesse scritto sopra: “Da parte dell’intemperanza della Grecia”.
Alessandro, una volta, si mise in piedi di fronte a lui e gli disse: “Io sono Alessandro, il gran re”, “E io” replicò,” sono Diogene il Cane”. Interrogato su che cosa facesse per essere chiamato “Cane”, rispose: “A quelli che mi danno, scodinzolo; a quelli che non mi danno, abbaio, e i cattivi , li mordo”.
Una volta, stava raccogliendo fichi maturi da una pianta; e poiché il custode gli disse: “Poco tempo fa, da questo stesso albero una persona si è impiccata”, rispose: “Io allora lo purificherò”. Avendo notato che un vincitore dei giochi olimpici rivolgeva occhiate a un’etera un po' troppo di frequente, disse: “Guarda un po',come un ariete preso dal furore bellico è abbattuto dalla prima donnetta che capita!”. Soleva affermare che le etere graziose assomigliano molto a un veleno mescolato con il miele. Mentre stava pranzando in piazza, gli astanti gli dissero ripetutamente: “Cane!”; ed egli ribatté: “Siete voi ad essere cani, che mi state guardando lì in piedi tutt’attorno mentre sto pranzando”.
Avendo notato un lottatore incapace che praticava la medicina, gli domandò: ”Che significa questo? Forse è per abbattere adesso quelli che un tempo ti hanno sconfitto?”. Avendo visto il figlio di una prostituta tirare una pietra contro una folla di gente lo ammonì: “fai attenzione a non colpire per caso tuo padre”.
Quando un giovinetto gli mostrò il pugnale che aveva ricevuto in dono da un amante, disse: “Il pugnale è bello, ma l’impugnatura (ossia la maniera in cui l’hai ricevuta) è brutta”. Mentre alcuni stavano lodando colui che gli aveva fatto un dono, protestò: “E non lodate, invece, me, che sono stato degno di averlo ricevuto!”. Poiché un tale gli chiedeva indietro il suo mantello, gli rispose: “Se me lo hai regalato, ora ce l’ho e me lo tengo; se invece me lo hai prestato, lo sto usando”….
A chi gli rimproverava di entrare in luoghi impuri, ribatté: “Anche il sole, in effetti, entra nelle latrine, eppure non rimane insozzato”. Mentre stava pranzando in un tempio, quando, nel corso del banchetto, furono servite in tavola delle forme di pane nero (rhyparòs), egli prese le sue e le gettò via, affermando che nel tempio non deve entrare nulla di impuro (rhyparòs). A uno che gli stava presentando suo figlio e gli stava dicendo che era di ottima indole e di carattere eccellente, Diogene replicò: “E allora che bisogno ha di me?”.
Ad Alessandro, che gli si pose in piedi davanti e gli domandò: “Non hai paura di me?”, replicò: “Perché, che cosa sei? Un bene o un male?”. E poiché quello rispose: “Un bene”, Diogene riprese: “Chi mai, dunque, teme un bene?”.
Si potrebbe continuare ancora a lungo con queste piacevolezze, ma la caratteristica del personaggio ne vien fuori piuttosto chiara, fermandosi qui.