Il sequenziamento del genoma umano è stato completato nel 2003. Da allora è in corso il lungo processo di “annotazione”, cioè l’individuazione dei singoli geni.
I risultati ottenuti, benché ancora non definitivi, sono stati una sorpresa perché suggeriscono un numero di geni intorno a 20.000, meno dei 27.000 di Arabidopsis, una sorta di broccolino alto pochi cm, e pressappoco lo stesso di Caenorhabditis, un vermiciattolo microscopico. Negli ultimi anni è stato completato anche il sequenziamento del genoma del nostro parente vivente più stretto, lo scimpanzé. Il risultato è stato una sorpresa ancor più imbarazzante: il genoma umano e quello dello scimpanzé sono identici al 99%. Si consideri che l’affinità media fra due esseri umani presi a caso tra gli oltre sei miliardi oggi viventi sul pianeta è pari al 99,5%, cioè solo lo 0,5% in più rispetto allo scimpanzé. Rimane quindi solo uno 0,5% che fa la differenza fra Albert Einstein e un grazioso bonobo? Sì, ma non solo: Einstein è il prodotto di una complessa successione di eventi non direttamente legati alla genetica.
Una sostanziale differenza fra l’uomo e gli altri primati, compresi gli scimpanzé, sta nelle dimensioni del cervello. Il cervello dell’uomo moderno ha un volume di circa 1300 cm3 rispetto a 400 cm3 nello scimpanzé. Le dimensioni del cervello sono correlate con il numero di neuroni, la flessibilità comportamentale e, in generale, con le capacità cognitive.
Essere più intelligenti paga: lo dimostra lo straordinario successo biologico dell’uomo. Se le cose stanno così, viene però da chiedersi perché tra gli animali solo l’uomo ha aumentato le dimensioni del cervello in modo così spinto, distaccandosi nettamente anche dai suoi parenti più prossimi. La risposta è nel fatto che il cervello è un organo molto dispendioso in termini energetici: un aumento delle sue dimensioni permette risposte comportamentali più elaborate ed efficaci, quindi migliora le capacità di sopravvivenza, ma è sottoposto a severe costrizioni evolutive. L’analisi delle relazioni fra dimensioni del cervello e altri parametri biologici tra gli animali, infatti, mostra che un cervello più grande comporta un rallentamento nello sviluppo dei piccoli e un allungamento dell’intervallo fra una natalità e la successiva. Di conseguenza, esiste un limite massimo alle dimensioni del cervello, superato il quale la natalità diventa troppo bassa per la sopravvivenza della specie.
L’uomo, tuttavia, non solo ha accresciuto le dimensioni del cervello, ma ne ha anche aumentato l’attività metabolica: il cervello umano consuma molta più energia per unità di peso rispetto agli altri animali. In un uomo moderno adulto, il cervello rappresenta circa il 2 % del peso totale, ma consuma mediamente il 20% del fabbisogno calorico totale. Per ottenere un cervello grande e attivo, l’uomo ha dovuto allungare moltissimo la fase di sviluppo (infanzia e adolescenza) e migliorare la dieta in termini sia di qualità, sia di apporto calorico. Questi cambiamenti hanno avuto luogo non solo senza abbassare il tasso di natalità, ma addirittura accrescendolo rispetto ai parenti primati più vicini. Una femmina umana è in grado di dar vita nel corso della sua vita a 8-10 piccoli, talora di più, mentre una femmina di scimpanzé raramente arriva a sei, e una femmina di gorilla o di orango anche meno. Com’è riuscita questa straordinaria operazione evolutiva?
A lungo si è attribuito il merito alla monogamia, che permette di distribuire il peso delle cure parentali fra due genitori. La pratica della monogamia nell’uomo può in effetti aver contribuito a migliorare la dieta dei piccoli e sostenerne lo sviluppo per un periodo più prolungato. Per confronto, lo scimpanzé vive in gruppi promiscui e la cura dei piccoli è pressoché interamente a carico delle madri. I gorilla formano harem costituiti da un maschio e quattro-cinque femmine che si occupano dei piccoli, mentre il maschio protegge il gruppo da aggressori esterni ma non esercita cure parentali dirette. Nel corso dello sviluppo, un umano consuma circa 17 milioni di Kcal dalla nascita fino al raggiungimento della completa autonomia. Questo è un carico enorme, che nemmeno una coppia ben integrata avrebbe potuto sostenere nelle difficili condizioni in cui l’uomo ha vissuto per buona parte della sua storia.
È inoltre necessario considerare che la monogamia umana è tutt’altro che perfetta. Le differenze fisiche fra uomini e donne, un tratto che in biologia si chiama dimorfismo sessuale, dicono chiaramente che l’uomo resta in parte una specie promiscua: in natura non c’è nessuna specie dimorfica che sia interamente monogamica. Una monogamia imperfetta implica una cronica riduzione delle cure parentali mediamente assicurate ai piccoli, rispetto al livello massimo possibile. L’uomo ha trovato un indispensabile sostegno aggiuntivo nella cura collettiva della prole, formando gruppi basati sulla cooperazione reciproca, una forma di cooperazione indipendente dal grado di parentela (ben diversa, per intenderci, dalla cooperazione presente nelle api e altri insetti sociali).
La cooperazione reciproca è documentata in forme molto semplici anche in alcuni primati sociali, ma solo nell’uomo essa è un tratto comportamentale così profondamente radicato. La sua origine resta controversa, e non è possibile occuparcene in queste poche righe. La cooperazione reciproca ha permesso all’uomo di formare gruppi coesi in cui i maschi si occupavano essenzialmente della caccia e della difesa, le femmine della cura della prole e dello sfruttamento di altre fonti di cibo. La dipendenza dal gruppo era totale, senza di esso sia i piccoli, sia gli adulti avevano pochissime possibilità di sopravvivenza; nello stesso tempo la stabilità del gruppo era legata al rispetto di regole severe, prima fra tutte il dovere di cooperare per il bene della comunità. Sottrarsi a queste regole comportava l’ostracismo, l’espulsione o addirittura la morte.
Nella linea evolutiva umana, il cervello ha cominciato a crescere oltre 2 milioni di anni fa, con 640 cm3 in Homo habilis, 800 cm3 in Homo erectus, 1100 cm3 in Homo heidelbergensis, circa 1300 cm3 nell’uomo moderno(Homo sapiens), e persino un po’ di più nei Neanderthal. Questo suggerisce che l’uomo abbia praticato l’associazione in gruppi basati sulla cooperazione reciproca sin dalle origini. Nel corso dello stesso intervallo temporale, l’innovazione tecnologica si è limitata a passare da ciottoli sfaccettati su di un solo lato, a ciottoli sfaccettati su due lati e infine ciottoli dotati di un prolungamento che permetteva di attaccarli a pali di legno: oltre due milioni di anni per imparare a fare un’ascia di pietra. In termini anatomici, l’uomo moderno è apparso in Africa centro-orientale circa 100.000 anni fa. Per circa 50.000 anni, tuttavia, esso ha continuato a scheggiare ciottoli, producendo i soliti strumenti grossolani. Poi, 50.000 anni fa, ha avuto inizio un rapidissimo progresso tecnologico. Fra 50.000 e 20.000 anni fa, Sapiens ha inventato arco e frecce e l’ago per cucire, fabbricato monili, strumenti musicali e oggetti d’arte, costruito barche, dipinto straordinari affreschi sulle pareti delle caverne in cui mostra chiare capacità di rappresentazione simbolica. Contemporaneamente, Sapiens ha colonizzato l’intero pianeta, arrivando anche in Australia e nelle Americhe. Questo tumultuoso progresso tecnologico e culturale è stato attribuito a una “rivoluzione cognitiva”, un cambiamento genetico che avrebbe modificato il cervello di Sapiens, già arrivato a dimensioni moderne, rendendolo improvvisamente capace di fare cose del tutto nuove. Per verificare quest’ipotesi, il genoma dell’uomo moderno è stato posto a confronto con il genoma estratto da umani vissuti prima della rivoluzione cognitiva. Sembra impossibile, visto che parliamo di popolazioni estinte da molte migliaia d’anni, ma la tecnologia moderna ci ha permesso di sequenziare con notevole affidabilità DNA estratto da fossili antichi di decine o centinaia di migliaia d’anni. I risultati provano che le sequenze che distinguono l’uomo moderno dallo scimpanzé, fra cui alcune messe in relazione con l’aumento delle dimensioni del cervello, erano quasi tutte già presenti non solo nel genoma dei Sapiens vissuti prima della “rivoluzione cognitiva”, ma anche in quello dei Neanderthal e dei Denisoviani, due linee umane separatesi dalla linea dei Sapiens almeno 400.000 anni fa. Questo solleva dubbi sull’idea che il cambiamento sia semplice conseguenza di una mutazione genetica. Cosa può essere accaduto, allora? Studi sperimentali mostrano che bambini di 3-4 anni non se la cavano meglio degli scimpanzé nella risoluzione di semplici problemi spaziali, ma si rivelano molto più abili nella capacità di comunicare, apprendere attraverso l’imitazione, e comprendere le emozioni degli altri. Questo suggerisce che il vero motore della rivoluzione cognitiva si trovi in una migliore empatia e una superiore capacità di collaborare e trasmettere informazioni. Alcuni antropologi hanno fatto un ulteriore passo avanti, ipotizzando che le superiori capacità cognitive degli umani non siano innate ma presenti solo in forma potenziale, sviluppandosi compiutamente nel periodo compreso fra la prima infanzia e l’inizio della maturità attraverso l’interazione sociale e l’apprendimento. In altre parole, un piccolo di Sapiens allevato dai lupi (ammesso sia possibile) non diventerebbe mai umano, ma forse un piccolo di Neanderthal allevato tra i Sapiens si integrerebbe perfettamente.
Questo ci fornisce l’anello mancante. Torniamo un attimo indietro. Molto verosimilmente, l’uomo ha evoluto un cervello di dimensioni sempre maggiori grazie alla capacità di cooperare, sotto l’azione di una pressione selettiva che premiava migliori capacità cognitive. Un cervello più grande e complesso e la conseguente indissolubile dipendenza dalla cooperazione sono stati rispettivamente condizione necessaria e forza motrice per l’evoluzione del linguaggio, un sistema di comunicazione semanticamente illimitato, unico degli umani. Attraverso la mediazione del linguaggio si è sviluppata la cultura, fondamentale collante sociale fatto di conoscenze e idee condivise, trasmesse di generazione in generazione attraverso l’apprendimento. Forme rudimentali di cultura sono note in altre specie animali. La cultura umana, tuttavia, ha proprietà uniche quali l’accumulo delle conoscenze, che permette innovazioni tecnologiche superiori alle capacità cognitive dei singoli individui, e la cultura donata, cioè la trasmissione di prodotti finiti, sotto forma sia di strumenti fisici, sia di modelli di organizzazione. La cultura può evolversi in tempi enormemente più rapidi rispetto all’evoluzione biologica, e può nello stesso tempo influenzare quest’ultima. L’accumulo di conoscenza ha creato altra conoscenza a un ritmo sempre più serrato, innescando circa 50.000 anni fa quello che abbiamo percepito come un cambiamento improvviso rispetto all’estrema lentezza dell’evoluzione tecnologica sino ad allora. In questa prospettiva, l’accelerazione registrata a partire da 50.000 anni fa non riflette un repentino miglioramento delle capacità cognitive, ma solo l’incremento in progressione geometrica di un processo iniziato oltre due milioni di anni prima e tuttora in corso (Figura 1). Tra il 1500 e il 1900, il capitale collettivo di conoscenza è raddoppiato circa ogni 100 anni. Nel 1950 ha cominciato a raddoppiare ogni 25 anni; oggi raddoppia mediamente ogni 13 mesi.
Conseguenza “collaterale” di tale processo è stata una crescita costante della popolazione umana e del suo impatto ambientale, che diverge sempre più dalla sostenibilità. L’unica opzione aperta per il futuro è il passaggio dalla cooperazione di gruppo alla cooperazione globale, un cambiamento culturale che metaforicamente rappresenterebbe per la specie la fine dell’infanzia e l’inizio nella maturità.
Cosa ha spinto la linea umana a intraprendere un percorso evolutivo così straordinario? Potremmo forse occuparcene più in là.